23 settembre 2019
Nella cronaca sul Corriere Bergamo della commissione che ha discusso il tema che stiamo esaminando, la redattrice Silvia Seminati si è acutamente chiesta perché in campagna elettorale si facciano faville sul tema sicurezza, salvo poi ammutolire quando si tratta di decidere misure concrete. E ha citato il mio dichiararmi – a differenza dell’assessore Gandi, ma non penso solo di lui – “non orgoglioso” del fatto che Bergamo sia stato il primo Comune ad adottare il DASPO urbano.
Sento la necessità, quindi, di cogliere l’occasione per affrontare il tema.
Il DASPO urbano, ai sensi dell’art. 10 del decreto legge del 2017, poi convertito nella legge 48/2017, voluto dal ministro Minniti per motivazioni di “straordinaria necessità e urgenza”, colpisce chi viene trovato in stato di ubriachezza, compie atti contrari alla pubblica decenza, esercita il commercio abusivo, l’attività di parcheggiatore o guardiamacchine abusivo. L’articolo 9 del decreto prevede una sanzione amministrativa pecuniaria da 100 a 300 euro e di un ordine di allontanamento dal luogo della condotta illecita, in violazione dei divieti di stazionamento o di occupazione di spazi quali: centri di istruzione, cioè scuole; centri di interesse storico-culturale, cioè musei o aree turistiche; aree verdi, cioè parchi e giardini pubblici; limita la libera accessibilità e fruizione di infrastrutture (fisse e mobili) ferroviarie, aeroportuali marittime e di trasporto pubblico locale, urbano ed extraurbano, e delle relative pertinenze. La competenza all’adozione dei provvedimenti è del sindaco del comune interessato e i proventi delle sanzioni sono destinate ad interventi di recupero del degrado urbano.
I sindaci in sostanza hanno avuto il potere di chiedere l’allontanamento di chiunque venga considerato “indecoroso”: non occorre che sia indagato o che abbia commesso un reato. Fatto che ha sollevato rilevanti dubbi nei costituzionalisti. Ma soprattutto che non risolve il problema, perché se allo stadio posso effettivamente impedire di entrare a chi è pericoloso per la pubblica sicurezza, spostare di 100 metri per 48 ore il sospettato non ha alcun risultato reale. Le stesse ammissioni dell’assessore Gandi e lo stucchevole dibattito proposto dagli ordini del giorno della destra, tutti tesi a definire a quanti metri si deve estendere la sorveglianza, danno l’idea della fragilità dello strumento.
Ritenevo e ritengo questo provvedimento una scelta pericolosa e di propaganda, un cedimento alla tentazione di inseguire le destre sul “terreno della sicurezza”, senza accorgersi che questo “inseguimento” ottiene l’unico risultato di dare credibilità alle tesi sulla città “insicura” (di cui abbiamo avuto preciso riscontro in campagna elettorale). Gli strumenti amministrativi e penali per contrastare i reati citati esistono, la polizia locale e le forze dell’ordine ben conoscono queste situazioni: questo decreto a cosa serve? Più che dare effettive risposte, ha pesanti conseguenze negative sul versante culturale, perché fa prevalere la cultura della paura e dà forza all’idea che chi vive in condizioni di marginalità sia insopportabile, pericoloso; aumenta la cattiveria sociale, che con il defunto governo giallo-verde ha avuto il suo massimo sdoganamento, segno di una stagione che dobbiamo chiudere al più presto.
Allontanare non significa risolvere, ma nascondere. Contrastare questa impostazione non significa volere il centro storico colmo di accattoni, ma significa obbligare ad affrontare le ragioni del disagio, non a perseguitarlo. Significa non ammettere scuse e scorciatoie. Un accattone non è uno spacciatore, un poveraccio o un disperato non è un criminale.
Non sono pertanto né orgoglioso né convinto della saggezza ma nemmeno dell’utilità di questa scelta, tanto più incomprensibile in quanto è in contraddizione con le molte pregevoli misure che questa amministrazione nei cinque anni scorsi ha preso in direzione completamente opposta sia in ambito sociale sia a livello culturale, scelte democratiche, progressiste, attente ai diversi e agli ultimi.Faccio mie le parole che aveva pronunciato Roberto Saviano al momento dell’approvazione del decreto Minniti: “Cosa aveva reso la sinistra italiana di Kuliscioff e Turati, di Rosselli e Calamandrei un punto di riferimento internazionale? La capacità di coniugare riforma sociale con libertà, senso del reale con l’aspirazione di cambiamento. Non il povero ma la povertà era il problema, non il criminale ma il crimine, non il ricco ma il privilegio erano il problema. Non di disagio allontanato ma di disagio affrontato. Non città fatte di centro pulito e mondezza spazzata in periferia. Ma il contrario, il centro cuore di una città la cui periferia diventa sua espansione, avanguardia. Idee che non ci sono più e senza idee non c’è più vita ma solo un investimento sul capitale in queste ore più facile da raccogliere: la paura”
Oggi siamo chiamati a valutare una modifica, predisposta dal recente decreto Salvini, che estende l’applicazione del Daspo a luoghi non previsti in origine, presidi sanitari e aree destinate allo svolgimento di fiere, mercati, pubblici spettacoli, luoghi tutti accomunati da una intensa frequentazione di pubblico e da elevata funzione sociale.
Colgo in questa modifica – parte di un decreto sicurezza ulteriormente basato sulla paura dello straniero, che spero la nuova maggioranza revochi al più presto – un segnale positivo di quanto chiedeva la nostra amministrazione al ministro Salvini e affermava lo stesso Minniti. Lo cito: la legge “devolve ai rappresentanti delle comunità la sicurezza dei luoghi che, solo le comunità, più di chiunque altro, conoscono e sono dunque in grado di proteggere al meglio”: riportare la sicurezza in mano alle amministrazioni locali, sottraendola alla furia dei partiti d’ordine, è cosa utile.
Per questo, nonostante la mia contrarietà di fondo all’impostazione del DASPO urbano, mi limiterò all’astensione su questo provvedimento.