Cito due casi.
- La Rai ha programmato in questi giorni uno spot che invita le donne vittime di violenza a denunciare chiamando il 1522, strumento di cui anche il nostro Consiglio si è fatto promotore. Sulle reti Mediaset è andato in onda uno spot in cui si vede una donna incinta arrivare al pronto soccorso piena di lividi: la dottoressa che la soccorre le chiede cosa sia successo, lei dice di essere caduta, ma dopo una carezza e uno sguardo complice, la donna finalmente confessa di essere stata picchiata. A quel punto la nota attrice protagonista guarda in camera e dice: “Quando per paura diciamo bugie, diventiamo complici del nostro carnefice”.
- Una vignetta che circola in questi giorni rappresenta una scritta su un muro. Si legge: “Proteggi tua figlia, Educa tuo figlio”, con la prima parte cancellata. Rimane la seconda.
Lo spot è profondamente sbagliato. Oscura il fatto che chi non denuncia non è per nulla complice del proprio carnefice, anzi. E’ doppiamente vittima. Quello spot è un caso esemplare di vittimizzazione secondaria, quando alla donna viene imputata la colpa della violenza che ha subito.
E non è solo questo il problema di quello spot: spesso chi denuncia una violenza, se non adeguatamente protetta, rischia di andare incontro a reazioni terribili: sono numerosi i casi di donne uccise dopo aver denunciato. Secondo la commissione parlamentare sul femminicidio, il 15% delle donne uccise tra il 2017 e il 2018 aveva sporto denuncia contro quello che poi sarebbe diventato il loro assassino; il perché lo spiega un altro rapporto della stessa commissione di questa estate, che denuncia l’impreparazione del personale giudiziario nel raccogliere e trattare i casi di violenza di genere.
Perché nel giorno in cui si ricordano le tante, troppe donne vittime di violenza, si continua a chiedere alle donne di denunciare? La risposta è semplice quanto banale: perché è più comodo. Innanzitutto, una donna che denuncia è già vittima, ha già subito violenze fisiche e psicologiche forse per anni, quindi la violenza è già stata commessa e la donna ha forse già gli strumenti e la forza per denunciare.
Ma il punto non è farci trovare preparati e preparate alla violenza quando avviene, il punto è evitare di cadere in una relazione abusante e violenta.
La maggior parte delle campagne di questi giorni hanno come protagonista una donna e si rivolgono alle donne. Eppure, il 25 novembre non è una giornata generica contro la violenza, ma quella contro la violenza maschile sulle donne. Maschile. Contro le donne. Perché si fa violenza a chi è contro. A chi è nemico, avversario, concorrente. Il ruolo degli uomini è talmente soffuso che l’aggettivo “maschile” scompare da molti degli spot e delle campagne sul 25 novembre.
Ecco perché è centrato il secondo spot, quello che invita non a difendere la figlia, che va formata a difendersi da sola, ma a educare noi e i nostri figli.
Fabio Roia, presidente vicario del tribunale di Milano e componente dell’Osservatorio sulla violenza contro le donne, ha recentemente risposto a chi gli chiedeva perché siano soprattutto gli uomini giovani a commettere queste violenze: “I figli della cultura del delitto d’onore continuano a lasciare dietro di sé un modello fondato sul predominio dell’uomo sulla donna”. E’ nella famiglia –non possiamo dimenticare né sottovalutare che la maggior parte delle violenze avviene in famiglia, con persone ben note alle donne vittime – e nei modelli negativi che la società trasmette che gli uomini violenti trovano la legittimazione per compiere questi atti criminali. La soluzione sta nell’educazione che deve avvenire fin dai primi anni di vita e che deve coinvolgere gli uomini quanto le donne: “Dobbiamo introdurre nelle scuole – propone Roia – una materia che insegni a rispettare i coetanei di genere diverso, mettendoci dentro nozioni di psicologia, storia, diritto pubblico delle altre nazioni, ma innanzitutto educazione. Ed è necessario che nelle scuole intervenga personale formato a dovere, un altro vulnus dell’intero sistema di prevenzione della violenza contro le donne”.
Prevenire, dunque, meglio che curare: evidentemente è una lezione che molti adulti tendono a dimenticare. Il perché in questi giorni quasi nessuno ponga l’accento sul problema educativo è presto detto e basta guardare a cosa è accaduto durante il dibattito sul DDL Zan per comprendere come una materia come questa difficilmente approderà nelle nostre classi: era proprio la definizione di “genere” che ha portato all’affossamento definitivo della legge. Ed era proprio quel disegno di legge che prevedeva l’inasprimento delle pene per chi commette atti discriminatori o violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, o sull’identità di genere: i cosiddetti crimini di odio contro persone per il solo fatto di appartenere a un determinato gruppo sociale come richiederebbe la convenzione di Istanbul ratificata anche dall’Italia. Ma quel disegno di legge è stato bloccato in Senato.
Per anni, dalle destre estreme ai conservatori moderati, quasi tutto l’arco parlamentare si è espresso contro il “gender nelle scuole”, ovvero proprio quell’educazione all’affettività e al rispetto del diverso che potrebbe servire a prevenire non solo la violenza contro gay e trans, ma anche contro le donne.
Non si può non concordare con Valeria Valente, presidente della commissione parlamentare sul femminicidio, quando parla della necessità di una rivoluzione culturale. Per noi uomini, prima di tutto.
Educazione e comunicazione, anche e soprattutto pubblica.
Un esempio è il nuovo PROTOCOLLO METROPOLITANO SULLA COMUNICAZIONE DI GENERE E SUL LINGUAGGIO NON DISCRIMINATORIO sottoscritto due anni fa da Città metropolitana e Comune di Bologna, Distretti sociosanitari del territorio metropolitano, Organizzazioni sindacali, Università, Ufficio Scolastico, Ordine dei giornalisti e Corecom. E che è sulla linea del “Manifesto della comunicazione non ostile”, approvato da questo Consiglio.
Il documento mira a rilanciare tutto il lavoro già esistente sul territorio definendo e realizzando percorsi di sensibilizzazione e in/formativi, rivolti al mondo delle istituzioni, dei media, delle associazioni, della scuola, e ai soggetti che a vario titolo utilizzano la comunicazione nel proprio lavoro, affinché ci sia sempre maggior consapevolezza rispetto ai linguaggi e ai messaggi veicolati.
Obiettivo del Protocollo è promuovere una cultura del rispetto nella comunicazione, sia nelle parole sia nelle immagini, attraverso una serie di azioni condivise, per superare gli stereotipi e valorizzare le differenze di genere e per la salvaguardia della dignità dei soggetti femminili e maschili rappresentati.
Obiettivi specifici sono:
– educare a non usare un linguaggio sessista e/o discriminatorio;
– rappresentare il genere femminile nel linguaggio parlato e scritto;
– evitare di usare immagini di violenza in cui le donne siano rappresentate come vittime;
– evidenziare come la violenza sulle donne spesso nasca in contesti ordinari e domestici.
Cambiamo strada, anche noi.